
Al di là di ogni possibile attribuzione, Leonardo da Vinci o forse più presumibilmente un’artista toscano a lui coevo, l’importanza del dipinto conosciuto come Tavola Doria, dal nome del suo collezionista originario, è grandissima e indubbia in quanto rappresenta una delle rarissime testimonianze visive di come doveva essere il dipinto murale della Battaglia Anghiari, che un tempo ornava la Sala del Gran Consiglio, in seguito conosciuta come Salone dei Cinquecento, di Palazzo Vecchio a Firenze.
Il grande dipinto fu commissionato a Leonardo dalla Signoria fiorentina attraverso il suo Gonfaloniere di giustizia Pietro Soderini, con una delibera datata 4 maggio 1504.
A Michelangelo Buonarroti fu invece commissionato, nella parete accanto, un dipinto murale che doveva rappresentare la Battaglia di Càscina.
I due dipinti sarebbero diventati la più importante rappresentazione pittorica in uno spazio interno di un edificio pubblico, quello della sede del governo della città di Firenze.

La battaglia Anghiari ricordava la vittoria riportata dai fiorentini e dalle truppe pontificie nel 1440 sull’esercito milanese presso quella località situata nel territorio di Arezzo immediatamente adiacente Firenze.
La battaglia fu ricordata anche con ironia da Niccolò Macchiavelli nel quinto libro delle Istorie fiorentine del 1520: “E in tanta rotta e in si lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì altri che uno uomo; il quale, non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto espirò. /…/ la vittoria molto più utile per la Toscana che dannosa per il Duca [di Milano]; perché, se i Fiorentini perdevano la giornata, la Toscana era sua; e perdendo quello, non perdé altro che le armi e i cavagli del suo esercito; i quali con non molti danari si poterono recuperare.”
La battaglia di Càscina invece ricordava l’episodio dell’allarme dato alle truppe fiorentine stabilitesi a sei miglia da Pisa, nel luglio 1364, che a causa del gran caldo stavano facendo un bagno in Arno, al sopraggiungere dei pisani in marcia.
Entrambe le rappresentazioni celebravano dunque due importanti vittorie dell’esercito fiorentino per una glorificazione della rinata Repubblica di Firenze.
La tavola Doria riporta in particolare l’episodio della Lotta per lo stendardo che vede contrapposti in una furiosa mischia a cavallo, Francesco Piccinino e suo padre Niccolò, comandanti delle truppe milanesi di Filippo Maria Visconti, con un feroce combattimento con le sciabole contro Ludovico Scarampo Mezzarota e Pietro Giampaolo Orsini, capi delle truppe pontificie e fiorentine.
I volti dei cavalieri milanesi, in particolare quello del Piccinino hanno i tratti dei volti deformati dall’ira e dalla furia guerriera, mentre i profili dei fiorentini e dell’alleato papale indicano un ideale di combattimento più armonioso.
Attraverso questo terribile scontro Leonardo intendeva sottolineare “la terribilità della guerra”, come riportato in un suo manoscritto del 1490 nel quale parla anche di soldati disarmati che tentano di difendersi con morsi e graffi e altri calpestati dai cavalli in corsa, come documentano i tre fanti a terra inseriti nella tavola Doria.

L’idea che oggi abbiamo del dipinto murale di Leonardo è anche basata su alcuni suoi preziosi schizzi preparatori, nei quali indaga la furia del combattimento a cavallo, i volti deformati dall’ira di alcuni cavalieri e la lotta corpo a corpo dei due fanti a terra avvinghiati l’uno sull’altro.
Altre copie, tra cui una completata da Rubens, ci documentano inoltre con estrema precisione come dovevano essere le sembianze del dipinto murale, che Leonardo però lasciò incompiuto nella primavera del 1506.
Per la sua esecuzione infatti si era basato sugli scritti di Plinio per la preparazione della parete a stucco e per l’elaborazione meditata di una pittura ad olio che doveva asciugare lentamente attraverso il calore di carboni accesi.
Ma l’impresa non gli riuscì perché nella vasta sala il fuoco non era sufficiente e la parete colò nella parte superiore e sembra che lasciò intatto soltanto una parte tra cui l’episodio della lotta per lo stendardo riportato dalla tavola Doria.
Il Vasari nelle sue Vite spiegò le ragioni di quest’insuccesso: “Et imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura si’ grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare, di maniera che in breve tempo abbandonò quella.”
Anche l’Anonimo Magliabechiano narra di quest’argomento: “E di Plinio cavò quello stucco con il quale coloriva: ma on l’intese bene. E la prima volta lo provò in un quadro della Sala del Papa, ché in tal luogo lavorava, e davanti ad esso, che l’aveva appoggiato al muro, accese un gran fuoco di carboni, dove per il gran calore di detti carboni rasciugò e seccò detta materia; e di poi lo volle mettere in opera nella Sala, dove più basso il fuoco aggiunse e seccolla, ma lassù alto, per la distanza grande, non si aggiunse il calore e la materia colò”.
L’insuccesso di quella che doveva essere l’impresa pittorica più importante della sua vita non fa che accrescere l’importanza della tavola Doria, che oltre ad essere un dipinto di eccelsa fattura è anche un preziosissimo documento che, dopo oltre settant’anni che è uscita illegalmente dal nostro paese e grazie all’accordo di cooperazione internazionale stipulato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con i funzionari del Fuji Art Museum di Tokyo, potrà finalmente essere analizzata e studiata e fornire preziose risposte, sia in merito alla sua attribuzione che al mistero di quello che doveva effettivamente essere il grande dipinto murale della battaglia Anghiari.
Vladek Cwalinski
Tavola Doria – Il rientro di un grande capolavoro
Palazzo del Quirinale
Sala della Rampa
Fino al 13 gennaio 2013
Dal martedì al sabato 10.00 – 13.00; 15.30 – 18.30; domenica 8.30 – 12.00
Ingresso gratuito
Catalogo: Gangemi Editore