Dai capolavori patavini di Veronese, alla rivisitazione barocca delle sue scenografiche
invenzioni: l’eredità di un grande artista in mostra a Padova.
In mostra anche l’ “Ascensione di Cristo” di Veronese, dalla Chiesa di San Francesco, oggetto
alla fine del Cinquecento del furto clamoroso della parte inferiore.
Per la prima volta, torna a Padova la grande porzione trafugata, identificata solo negli anni
Sessanta del Novecento in un‘opera dell’Arcidiocesi di Olomouc in Boemia.
Il cromatismo limpido e armonioso, gli audaci impianti architettonici, la forza scenografica
delle composizioni, perfino l’intensa drammaticità nei soggetti sacri dell’ultimo periodo: quella
di Paolo Veronese è stata una pittura potente e di straordinaria forza comunicativa, capace
di influire sulla produzione artistica di tanti contemporanei e d’intere generazioni
d’artisti, ovunque egli sia stato chiamato ad operare.
Fu così anche a Padova, città con la quale Veronese ebbe intensi rapporti a partire dal 1556
– soprattutto grazie all’illuminata committenza dei benedettini – apportando nuova linfa alla
civiltà figurativa locale.
Da allora non fu più possibile prescindere dall’esperienza veronesiana che diverrà termine
fondamentale di confronto per i nuovi protagonisti della scena locale.
La mostra, promossa per ricordare l’arte del grande maestro dal Comune di Padova, Assessorato
alla Cultura e Turismo – Musei Civici e Biblioteche di Padova – con Mibact-Soprintendenza per
i beni storici, artistici ed etnoantropologici per le Province di Venezia, Belluno, Padova e
Treviso, Ministero dell’Interno Fondo Edifici di Culto, Regione del Veneto, la collaborazione
della Fondazione Antonveneta e il sostegno di Fischer Italia, Cassa di Risparmio del Veneto,
Gruppo ICAT e SKIRA capofila ATI – prenderà dunque le mosse proprio dai capolavori di
Paolo Veronese conservati a Padova, riuniti per l’occasione nelle sale dei Musei Civici agli
Eremitani, dal 7 settembre 2014 all’11 gennaio 2015, con la sola eccezione dell’inamovibile
Pala di Santa Giustina.
Una sorprendente riflessione sul lascito di uno dei maggiori artisti del Cinquecento, che
prosegue in un denso excursus tra eredi, emuli e interpreti dello spirito e delle invenzioni
veronesiane nel contesto patavino tra il XVI e il XVII secolo: dal fratello Benedetto Caliari e i
figli Carletto e Gabriele – gli Heredes Pauli operosi anche a Santa Gustina – a Giovanni
Battista Zelotti, Dario Varotari, Lodovico Pozzoserrato e Giovanni Battista Bissoni. In
risposta alla pittura d’ispirazione tizianesca del Padovanino, Pietro Damini lavora in termini
veronesiani, mentre, con l’avanzare del Seicento, Girolamo Pellegrini – punto d’incontro tra la
tradizione romana cortonesca accolta dal Liberi e quella veneta – il pittore fiammingo Valentin
Lèfevre, Giovanni Antonio Fumiani e Sebastiano Ricci individuano l’opera di Veronese
quale elemento fondante per la nascita del Rococò nel Veneto e la sua diffusione su scala
europea.
Nell’insieme circa cinquanta dipinti e una quarantina di stampe tratte dai lavori del pittore,
per raccontare “Veronese e Padova. L’artista, la committenza e la sua fortuna” a cura di
Davide Banzato, Giovanna Baldissin Molli ed Elisabetta Gastaldi.
Una vicenda intensa, che prende avvio verso la metà degli anni ’50 quando Paolo viene
chiamato dal Vescovo di Padova Francesco Pisani a realizzare la “Trasfigurazione” (1556)
per l’altare del duomo di Montagnana ove il prelato aveva una villa, e in seguito dalla
famiglia Contarini, che secondo le fonti possedeva in una delle residenze padovane opere di
Veronese.
Siamo agli inizi della prima maturità dell’artista che, seppur proveniente dalla terraferma,
aveva già raggiunto fama e successo nella Serenissima, dove si era stabilito con la bottega tra il
1554 e il 1555, e aveva già avviato i primi importanti lavori in laguna: a Palazzo Ducale, nella
Chiesa di San Sebastiano e per la Libreria marciana.
Verona d’altra parte era uno dei centri d’elaborazione artistica cui Padova si rivolgeva da
tempo, con una “trama di rapporti” che coinvolgevano già il vecchio Antonio Badile, maestro e,
a partire proprio dal fatidico 1556, suocero di Veronese.
Allo stesso anno i più recenti studi riconducono anche il bellissimo “Martirio di Santa
Giustina”, opera dai colori smaglianti e preziosi che Pallucchini definì “uno dei dipinti più
significativi dell’adesione giovanile di Paolo alla cultura del Manierismo” e che deve
considerarsi il prototipo di altre tele di analogo soggetto. Collocato forse originariamente nella
cappella del padre abate e poi passato nella Galleria abbaziale di Santa Giustina, il dipinto – con
cui si apre l’importante esposizione agli Eremitani – segna l’avvio del fecondo e continuativo
rapporto del pittore con i benedettini del padovano.
Pochi anni dopo nel 1562, l’abate Placido II da Marostica commissiona al Veronese, per
l’Abbazia di Praglia, la Gloria d’Angeli e poco dopo Il Martirio dei SS Primo e Feliciano,
due grandi tele centinate poste negli altari ai lati dell’altare maggiore. In quello stesso
periodo l’artista stava realizzando le pale del monastero benedettino di Polirone, a San
Benedetto Po, appartenente alla medesima congregazione e aveva da poco ultimato gli affreschi
di Villa Barbaro a Maser che si possono opportunamente mettere a raffronto con le due opere:
l’una di grande efficacia luministica, l’altra – il Martirio – squisitamente teatrale e dal
cromatismo limpido e armonioso, connotata da un impianto architettonico audace e da una
composizione ardita, con un gruppo simmetrico di persone in ombra cui si contrappone la
candida infilata architettonica e il cavaliere fuoricampo.
La mostra vanta anche due assolute rarità nel corpus veronesiano, entrambe di proprietà dei
Musei Civici, come la Crocefissione unica opera nota su lavagna di Paolo Veronese – dipinta
per i benedettini all’inizio degli anni Ottanta – e la Maddalena e l’angelo (1582 c.), un
incompiuto, un pensiero steso velocemente sulla tela, d’estremo interesse per comprendere la
tecnica seguita da Caliari negli ultimi anni e che evidenzia come l’artista realizzasse “con
grandissima sicurezza, nella stessa fase, ombre e luci – come nota Davide Banzato – in vista di
un punto d’arrivo che dentro di se aveva ben individuato”, affidando al colore “una funzione
creativa nel progressivo procedere della definizione del dipinto”.
Interessante è l’autoritratto che Paolo Veronese inserisce nell’Ultima Cena, opera tarda
realizzata insieme alla bottega e probabilmente destinata al refettorio del convento dei
Cappuccini: una tela dall’atmosfera cupa e difforme che l’artista trae forse dalla coeva pittura di
Tintoretto.Eccezionale è infine la presenza nel percorso della mostra dell’Ascensione di Cristo,
databile 1575, proveniente dalla Chiesa di San Francesco a Padova. Si tratta di un’opera
chiave per l’impianto protobarocco, che avrà un notevole seguito negli esiti successivi di Paolo
e della bottega e che fu al centro poco dopo di una singolare vicenda di furti ed
esportazioni illecite.
La parte bassa dell’opera – identificata negli Undici Apostoli ora nell’Arcidiocesi di
Olomouc in Repubblica Ceca – venne infatti “da un rapace umano dal mezzo in giù tagliata”,
secondo la colorita ricostruzione del Ridolfi.
Rubata l’importante porzione di tela, sarà affidato a Pietro Damini nel 1625 il compito di
reintegrare il dipinto, essendo egli, allora, il più qualificato interprete dello stile veronesiano.
Dopo quasi 400 anni, ora la parte trafugata tornerà a Padova e potrà essere raffrontata
con il Cristo veronesiano e con l’invenzione di Damini.
All’onda lunga dell’attività della bottega e degli eredi, seguita alla morte di Paolo, alla
traduzione dello stile del maestro nelle decorazioni d’interni, condotta soprattutto dal
veronse Giovanni Battista Zelotti (si pensi agli affreschi del Catajo ma anche alle decorazioni
per l’Abbazia di Praglia da cui giungono in mostra Salomone e la regina di Saba e Gesù tra i
dottori), alle realizzazioni – infine – di Dario Varotari in chiave più domestica e provinciale,
era già succeduta una nuova fase: quella dei copisti, degli emuli e di quanti s’ispiravano
all’arte del Veronese, alla sua ricchezza di immagini e alla brillantezza di colori.
Per Damini in particolare, si deve parlare di un consapevole utilizzo degli spunti veronesiani
nella nuova ottica controriformista – l’uso dei cangiantismi, la ricchezza dei costumi, gli
elementi decorativi – fino al raggiungimento di un’adesione “personale” ai modi di Paolo,
come nella bella Adorazione dei Magi, raffinata e decorativa nella rappresentazione di
personaggi eleganti ma nel contempo di grande semplicità compositiva.
Il Caliari fu anche la personalità guida per quanti nel Veneto, dalla metà del settimo decennio
del Seicento, cercarono di impostare un nuovo linguaggio, basato sulle strutture coloristiche
e formali: da Girolamo Pellegrini – che lavorando a Maser ebbe modo di confrontarsi con uno
dei massimi capolavori di Paolo – a Valentin Lèfevre, famoso soprattutto per i suoi piccoli
quadri di soggetto biblico o storico-mitologico dove eroi da melodramma sono inseriti in
scene dalle strutture formali e architettoniche veronesiane e che in molte sue realizzazioni si
confronta direttamente con le opere di Paolo.
Al culmine del revival veronesiano seicentesco si pone Sebastiano Ricci, vero protagonista
della svolta rococò della cultura figurativa nel Veneto, veicolo della pittura chiara e luminosa di
Caliari in Europa. La presentazione al tempio proposta in mostra, di collezione privata, per
quanto successiva di almeno un decennio all’attività padovana – avvenuta anch’essa nel contesto
straordinario di Santa Giustina – è rappresentativa della sua operazione d’aggiornamento
settecentesco di uno spunto tratto dalle portelle dell’organo di San Sebastiano così come la tela
del Perazzoli con il Convito di Erode mostra l’immediato accoglimento nel Veneto di questo
gusto.
L’eredità lasciata da Paolo Veronese, il seme gettato con le sue scenografiche creazioni
continuava a dare i suoi frutti.D’altra parte la fortuna veronesiana è testimoniata in mostra anche da un nucleo notevolissimo
di stampe tratte dalle sue opere, selezionate nella collezione dei musei civici patavini e
rappresentative di buona parte della tematiche del pittore veneto. Preziosi fogli, che portano
la firma di grandi incisori italiani e stranieri dal Cinquecento all’Ottocento, come Carracci,
Lefèvre, Cochin, Wagner, Zanetti, Jackson, Monaco, Zancon e altri; importanti strumenti
filologici e critici e, talvolta, unica testimonianza iconografica esistente per lavori dispersi o
distrutti.
Accompagnato da un ricco catalogo edito da Skira, il grande evento espositivo di Padova è
arricchito da un Itinerario di approfondimento, che includerà la basilica di S. Giustina e la
Sala della Carità a Padova, il convento di Praglia, villa Roberti a Brugine, e il castello del
Catajo, evidenziando la diffusione dell’arte veronesiana nella decorazione d’interni.Veronese e Padova
L’artista, la committenza e la sua fortuna”
Padova, Museo Civico agli Eremitani
5 settembre 2014 – 11 gennaio 2015
Promotori: Comune di Padova-Assessorato alla Cultura e Turismo e dai Musei Civici e
Biblioteche di Padova – con Mibact-Soprintendenza per i beni storici artistici ed
etnoantropologici per le Province di Venezia, Belluno,Padova e Treviso,
Ministero dell’Interno Fondo Edifici di Culto e Regione del Veneto, con la collaborazione della
Fondazione Antonveneta e il sostegno di Fischer Italia, Cassa di Risparmio del Veneto,
Gruppo ICAT e SKIRA capofila ATI
Orari di apertura: da martedì a domenica, 09-19, chiuso tutti i lunedì non festivi
Biglietti: intero € 10,00; ridotto € 8,00; ridotto speciale € 6,00 convenzionati; ridotto scuole
€ 5,00; gratuito per bambini fino a cinque anni, possessori biglietto intero Cappella degli
Scrovegni, Padovacard, Cartafamiglia, Musei Tutto l’anno.
Gli eventi espositivi dedicati a Veronese nel Veneto (le mostre di Verona, Padova, Castelfranco
Veneto e Vicenza) prevedono agevolazioni reciproche che prevedono,: con il biglietto di una
mostra, l’ingresso ridotto nelle altre.