DOVE NON HO MAI ABITATO un film di Paolo Franchi

DOVE NON HO MAI ABITATO

un film di Paolo Franchi

con Emmanuelle Devos, Fabrizio Gifuni, Giulio Brogi, Isabella Briganti, Giulia Michelini, Fausto Cabra

Prodotto da Pepito Produzioni con Rai Cinema

scritto da Paolo Franchi, Rinaldo Rocco e Daniela Ceselli

Al cinema dal 12 ottobre 2017

SINOSSI

Francesca (Emmanuelle Devos), cinquant’anni, è l’unica figlia di Manfredi (Giulio Brogi), un famoso architetto che da quando è vedovo abita a Torino e che lei va a trovare solo in rare occasioni. Francesca da molti anni vive a Parigi con la figlia ormai adolescente e con il marito Benoît (Hippolyte Girardot), un finanziere sulla sessantina dal carattere introverso ma molto protettivo e paterno con lei. Dopo essere stato vittima di un infortunio domestico, Manfredi, per avere per un po’ di tempo la figlia al suo fianco a Torino, le chiederà di fare le sue veci nel progetto di una villa su un lago per una giovane coppia di innamorati. Francesca si ritroverà così a collaborare con il ‘delfino’ del padre, Massimo (Fabrizio Gifuni), un uomo sulla cinquantina che ha basato tutta la sua vita sulla sua carriera di architetto, tanto che il legame con la sua compagna, Sandra (Isabella Briganti), prevede che entrambi mantengano i propri spazi di autonomia e indipendenza. Dopo un primo approccio difficile, tra Massimo e Francesca piano piano nasce una grande sintonia professionale e un sentimento che li porterà, forse per la prima volta, a confrontarsi veramente con se stessi e i loro più autentici destini…

NOTE DI REGIA
Costruire le “case per gli altri”. Immaginare e realizzare uno spazio ideale dove
vivere, amare… E talvolta chi realizza questo per gli altri, si ritrova incapace di
farlo per se stesso. È il caso del cinquantenne Massimo, talentuoso architetto,
che nella vita ha schivato l’amore vero e si accontenta di una relazione complice
ma distante con una donna che certo non ha fondato radici nella sua vita. Ed è il
caso di Francesca, la figlia del grande architetto Manfredi, che si è costruita una
famiglia all’estero con un uomo più maturo di lei. Un uomo quasi anziano,
sostitutivo del padre, che la protegge e la ripara da tutto, anche da se stessa e
da quelle potenzialità più radicali che l’avrebbero messa troppo in gioco: il suo
talento di architetto e la passione, in tutte le sue sfaccettature…
Forse ciò che accomuna Massimo e Francesca è proprio questa paura, questa
impotenza ad affrontare la vita e tutti i suoi aspetti sentimentali… Forse sono
proprio queste affinità che li portano ad avvicinarsi l’un l’altra, a comprendersi,
capirsi e piano piano innamorarsi… Forse, prima del loro incontro (inconsciamente
pilotato dal grande architetto Manfredi, padre naturale di Francesca, padre ideale
di Massimo, deus ex machina della fabula in un certo senso), Massimo e
Francesca non si erano posti questo problema, vivevano la loro vita senza
evidenti frustrazioni esistenziali, convinti che le loro scelte fossero state le
migliori possibili… Ma nel corso della storia le strade sembrano cambiare
direzione. I due architetti, restaurando la villa per una giovane coppia di
innamorati, si ritrovano faccia a faccia con se stessi. Costruendo una casa per gli
altri, proprio questa casa demolisce le loro certezze affettive. E allora affiorano i
dubbi, i rimpianti, le domande…
Da questa “storia d’amore” che inizia e si conclude là, in quella “casa costruita
per gli altri”, i due architetti escono di scena, ribadendo quello che amaramente
sono ma con tutta un’altra consapevolezza… Un film di struggente disillusione,
dove i personaggi sono costretti dagli eventi a fare i conti con se stessi ( e forse
non è un caso che il film inizi e finisca con un compleanno, metaforico momento
di riflessione di sé e del proprio rapporto con la vita che ci passa accanto).
Un film di caratteri, di attori. Un’atmosfera autunnale. Una narrazione lineare,
naturalistica e semplice che si riavvicina al mio film d’esordio “La spettatrice”. Un
film riconciliato e non ossessivo. Un film tradizionale che non vuol dire “non
personale”. Tutt’altro: ho cercato di mettere a servizio il mio stile al genere
“sentimentale”, nel senso più nobile del termine. La melanconica prosa di
Cechov e i personaggi “morali” e altoborghesi di Henry James hanno certamente
influenzato la mia ispirazione. Una ricerca che ha anche una volontà di ritrovare
atmosfere di film passati. Lo si può chiamare vintage. Derivativo. Postmoderno.
O semplicemente classico.
Paolo Franchi

Ulteriori info

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