Fausto Pirandello alle Quadriennali del 1935 e del 1939

“Fausto Pirandello è nato pittore. Certi pezzi di questi suoi quadri e schizzi sono delicatissimi con quegli accordi di turchini sfatti, di bruni rosati, di bianchi di latte. Eppure in tutta la sala dedicata a lui non si trova un quadro sorretto e vivificato da un minimo di logica”, scriveva Ugo Ojetti, uno dei più importanti e influenti critici del ventennio fascista, sul Corriere della Sera del 5 febbraio 1935, in un articolo intitolato, il Duce alla “vernice” della II Quadriennale d’arte.

In effetti, di logica, con i ‘dovuti’ riferimenti alla solidità e alla prospettiva della tradizione pittorica italiana da Giotto a Masaccio, da Paolo Uccello a Piero della Francesca, così come soprattutto veniva intesa e tradotta in quegli anni, la pittura di Fausto Pirandello (Roma, 1899 – 1975) sembrava davvero averne poca.

In realtà lui metteva in crisi – così come i romanzi del padre, il grande drammaturgo siciliano Luigi Pirandello – un mondo di certezze apparenti, traballanti, borghesi.

La non logica apparente era in realtà la sua logica ferrea.

Acutissimo osservatore, Fausto, con la sua pittura, mirava a qualcosa di ben più profondo e duraturo che la superficiale celebrazione della modernità italica.

Il suo, pur con il viaggio a Parigi e la permanenza lì dal 1929 al 1930 con la frequentazione di tutto il gruppo degli italiani, da Tozzi a de Chirico, Savinio, Campigli, de Pisis, Severini, Paresce, resta il cammino e la ricerca di un isolato per scelta.

Lui puntava a un paragone reale, non fittizio, con i classici, scoprendo tutta l’inadeguatezza del suo presente a reggere il confronto col mondo antico.

 “Ho pensato agli antichi: essi sempre hanno riprodotto la vita attuale e la favola eterna. Mettere questa favola eterna sotto le vesti moderne, nella vita moderna. Così può nascere un quadro”, diceva accennando all’origine della propria visione del mondo.

Per questo motivo Fausto, usava il paradosso e l’assurdo come situazioni costanti nei suoi dipinti, caratterizzati da prospettive fortemente scorciate, mai accondiscendenti o tranquillizzanti, sempre aperte all’inaspettato.  

La sua osservazione della natura umana si esprimeva realizzando figure ataviche, possenti, figlie di una civiltà contadina, raffigurate spesso e volentieri, nei loro gesti solenni, in situazioni tanto semplici, quotidiane quanto paradossali nella loro traduzione pittorica.

E’ così per Padre e figlio o Palestra, così per Giochi in terrazza o La tenda rossa, mai una situazione comoda, mai un acquattarsi su un qualcosa che non ponga domande, che non ci faccia riflettere. 

Perché quelle situazioni così inquiete? Perché quelle prospettive instabili? Perché quelle composizioni sempre dissonanti? E’ tutta una fila di interrogativi che i dipinti di Pirandello pongono all’osservatore.

Ora, questa bella mostra, (l’ultima di Claudia Gian Ferrari, che ha curato anche il catalogo generale dell’artista prima della sua recente scomparsa) ce lo ripropone soffermandosi sulla sua presenza alle Quadriennali romane del 1935 e 1939.

In quelle occasioni Pirandello presentò opere che sembravano rifarsi alla solidità dell’Italia rurale e a una certa visione pittorica ottocentesca di matrice macchiaiola, ma che in realtà aprivano una crepa nella solida visione Novecentista.

E’ lui stesso in una pagina di diario a spiegare l’origine della sua visione del mondo: “Di tempo ne è corso, e tanto che ci si insuffla e ci si ripete che non siamo che apparenze, apparenze appena, e ci si esorta dunque ad agire in conseguenza; ed ecco che appena mi permetto di agire in conseguenza, e cioè di rappresentare apparenze di uomini, ossia uomini come apparenze, apparenze appena, e che agiscono di conseguenza, cominciamo a non capirci. Oh, allora? Come la mettiamo, allora? /…/ io invece lo credo, e di più, lo sento, e perentorio, il purgatorio nostro delle apparenze che siamo.”

 

Vladek Cwalinski

 

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

viale delle Belle Arti 131, Roma

Fino al 2 maggio 2010

Catalogo Electa

 

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