Osservando i sintetici disegni di Velasco (Bellano, 1960) e vedendo a quale tipo di urbanizzazioni si riferiscono, si rimane innanzitutto sbalorditi dall’immane quantità di utopiche visioni (ideologico capitalistica o promotrice del socialismo reale il risultato con il passare dei secoli si rivela tristemente lo stesso) che hanno portato alla nascita di questi veri e propri pachidermici relitti.
Molti di loro sono frutto, perlopiù amaro, dell’evo moderno, legati a un’industrializzazione selvaggia, opportunistica e cannibale, senza alcun rispetto per i luoghi, le tradizioni, la natura.
Gran parte delle città da lui prese in considerazione, (da Grand- Bassam in Costa d’Avorio ad Hashima in Giappone, da Kangbashi in Cina a Kayaköy in Turchia, da Sewell in Cile a Swromness in Georgia) delle quali ha saputo poeticamente coglierne l’attuale struggimento di un abbandono, in cui la natura lentamente si riprende ciò che le spetta, devono la loro origine al cocciuto e titanico tentativo dell’uomo di farsi misura del tutto, con la pretesa di dominare il mondo e piegarlo violentemente al proprio immediato tornaconto.
Molte di queste gigantesche rovine presentano dunque un minimo comun denominatore, poi declinato a secondo della latitudine e longitudine nei cinque continenti con diversi popoli e visioni politiche: lo sfruttamento scriteriato e immediato del territorio a qualsisi costo, per cui quando non vi è rimasto più niente da sfruttare, porta alla loro inevitabile decadenza e abbandono.
I disegni di Velasco, le cui spettacolari tele sono un’inevitabile conseguenza, dimostrano con un sapiente alternarsi di mezzi, (dall’inchiostro alla grafite, dall’olio all’acquarello, dalla tempera all’acrilico), la raggiunta maturità del suo vedere come una specie di poetico reportage.
Colgono con un fare sintetico, talvolta calligrafico, altre volte arioso, il malinconico abbandono attuale di questi insediamenti, spesso riportando, attraverso scorci particolari, l’idea della visione sintetica, o la pretesa di essa, che ne animava lo sviluppo.
Tra le tante ve ne sono due che hanno particolarmente attratto la mia attenzione, sia perché testimoni di un passato molto più antico rispetto alla recente rivoluzione industriale, sia per la bellezza della loro conformazione attuale.
Ayutthaya, sorta nel 1350 sulla riva del fiume Chao Phraya, in Thailandia, e Sawákin, costruita in età tolemaica (il geografo Tolomeo ne scrive attorno al II secolo chiamandola “porto di buona speranza”) come insediamento commerciale su una insenatura del Mar Rosso, in Sudan.
Emblematiche di come l’idea originaria di una città ne segni indelebilmente la fisionomia anche di fronte all’alterno trascorrere della storia.
Ayutthaya sarà per sempre legata alla spiccata tensione verticale ascetica dei suoi templi buddisti e Sawákin testimonierà ancora, anche attraverso le sue rovine, la sua origine commerciale ad ampio orizzonte attraverso la perfezione della sua pianta circolare e la bellezza delle sue mura coralline.
Vladek Cwalinski
La mostra è visitabile sino all'8 settembre 2013 alla Triennale di Milano